Il workaholic è la versione 2.0 di chi mostra un esagerato attaccamento al lavoro. Ma dipendenti dal lavoro si nasce o si diventa? La società di oggi impone ritmi di vita frenetici e la crisi economica ha contribuito a modificare le nostre credenze generando idee non sempre funzionali.. del tipo: “Per guadagnare decentemente devo lavorare tanto e rinunciare a ciò che mi piace“.
Peccato che di questo passo stiamo diventando vittime del modo in cui noi stessi scegliamo di gestire le nostre energie ed impiegare il nostro tempo.
La cultura dell’effimero porta a enfatizzare i grandi vuoti dell’uomo che coabita nella solitudine digitale, cercando di riempire quel vuoto esistenziale con il lavoro. Il lavoro sta diventando – come del resto già lo era – una corsia di accelerazione in cui immettersi, una specie di acquario dove ci si immerge senza respiro fino alla fine della giornata.
Ma quando finisce la giornata? Potremmo dire che non inizia e non finisce mai la giornata lavorativa, perché si è continuamente presenti in un tempo non più circolare ma cristallizzato dal rincorrere le più futili scuse che i “piani alti” giornalmente ci propinano come il metadone: il cliente ha fretta, non possiamo permetterci di perdere il cliente, c’è crisi.
Ecco, la scusa di tutto questo è sempre lei: la crisi. La crisi c’è, ma quella di un’identità aziendale che non è mai riuscita a specchiarsi in una situazione che cambia repentinamente forma, pelle e profumo.
Siamo ancora una volta nei “tempi moderni” di Charlie Chaplin, dove al suo posto troviamo un’intera società senza equilibrio, in un continuo fluttuare d’ingranaggi sempre più piccoli, ma sempre più invasivi: il digitale.
La relazione tra lavoro e perdita di produttività è costante in tutti i Paesi e in tutte le culture. In molte società di tutto il mondo, lavorare in modalità “always on” è stata considerata una virtù. Ma siamo proprio sicuri che sia la strada giusta da percorrere da qui alle prossime albe digitali? In teoria, lavorare di più dovrebbe portare a una maggiore produttività, ma le ricerche in psicologia e medicina dimostrano il contrario.
Dagli anni ’70 si è affacciata, nella letteratura scientifica, una nuova forma di dipendenza connessa alle attività lavorative: la work addiction o workaholism.
Cos’è il workaholic?
Il termine workaholic è stato introdotto da Oates (1971) come unione delle parole work e alcoholism, per descrivere la dipendenza dalla propria attività lavorativa caratterizzata da un incontrollabile desiderio di lavorare incessantemente.
Stando allo studio del 2016 del Chartered Management Institute, Quality of Working Life, i manager stanno lavorando sempre di più e tali ritmi stanno portando a livelli di sofferenza e di stress senza precedenti. Dei 1.574 manager intervistati, la maggior parte (77%) dichiara di lavorare almeno un’ora in più ogni giorno, ed è semplice arrivare a una media extra lavo-
rativa di 29 giorni all’anno.
Il 54% dei manager è d’accordo che i nuovi orari di lavoro stiano portando a livelli di stress insostenibili nel breve/medio periodo, e il 61% ritiene che tale situazione sia dovuta all’aumento della tecnologia negli ambienti di lavoro. Uno su cinque rivela che è in modalità “always on” e controlla costantemente la casella di posta per tutto il tempo, non riuscendo a “staccare”; ha un livello di produttività personale sempre più bassa e un’esperienza lavorativa legata allo stress. È interessante il collegamento tra aumento delle ore lavorative e aumento vertiginoso di problemi legati a cefalea, insonnia, burnout.
Oltre alla cattiva gestione della linea, lo studio rileva che i dispositivi mobile hanno aumentato i livelli di stress: il 61% afferma che con gli smartphone risulta difficile “spegnere il lavoro”. Oltre la metà dei manager (54%) controlla spesso le email al di fuori del normale orario di lavoro, mentre il 21% controlla “tutto il tempo” la casella di posta elettronica.
Ann Francke, CEO di Chartered Management Institute, ha commentato: “Non c’è nulla di sbagliato nel lavorare duro, ma solo se è ben supportato da una politica di wellbeing aziendale, in quanto il manager, di base, non ha gli strumenti per affrontare le cause del burnout che sono diventate una minaccia per la sua salute e per tutti gli altri che sono
sul posto di lavoro”.
La produttività continuerà inoltre a soffrire, salvo che i management inizino a formare i manager per prevenire il workaholism e trovare il giusto equilibrio tra vita lavorativa e personale.
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